Musica. La Maschera e le contaminazioni della musica napoletana
NAPOLI – Sabato 23 giugno gli attivisti dell’Ex OPG “Je so’ Pazzo” hanno celebrato l’anno di attività appena trascorso con una festa, e con il concerto del gruppo musicale napoletano La Maschera che, con 4 anni di lavoro e 2 dischi alle spalle, è attualmente tra i finalisti per le Targhe Tenco 2018. Al riguardo abbiamo rivolto le nostre domande a Roberto Colella, il cantante del gruppo.
Siete ancora convinti del nome scelto per il vostro gruppo?
«Non ci sono ripensamenti sul nome. Una delle cose che più apprezzo di esso è la semplicità, il fatto che non abbia tanti ghirigori. Talvolta la gente pensa che il nome sia stato scelto per un nostro particolare attaccamento alla maschera di Pulcinella: siamo affezionati a essa, ma la nostra intenzione è quella di rimuovere la maschera. Anche nella canzone “Pullecenella” il ritmo è allegro, ma va a contornare una canzone malinconica: Pulcinella dimentica tutto e tutti e invita gli altri nel proprio vicolo, non c’è battaglia sociale per lui. Questo forse è il dramma di Napoli: ognuno pensa alla propria storia e si dimentica di una visione più ampia.»
A quale stile vi sentite più vicini?
«Si deve tener conto del fatto che io sono un malato di musica: quando sono a casa ascolto musica o suono qualche strumento strano. Mi sento appartenente alle musiche del mondo, suoni che mi attraggono particolarmente. Durante la composizione di Parco Sofia (2° album del gruppo – ndr) ero affascinato dal sound africano: sono ancora legatissimo alla musica Tuareg. Ultimamente sto ascoltando soprattutto musica portoghese e argentina, quindi non escludo che possa uscire qualcosa con questa radice, ma contaminata dalla musica napoletana.»
Ha mai scritto in italiano?
«Ho iniziato a scrivere in italiano, ma nessun brano mi convinceva abbastanza. Per me è fondamentale percepire la sensazione che provavo mentre scrivevo il pezzo, il giorno successivo alla stesura, mentre lo ascolto: quando succederà con un brano in italiano, inglese, spagnolo, canterò quel brano, basta che io riesca a provare quella sensazione.»
Suona tantissimi strumenti, ce n’è qualcun altro che vorrebbe imparare?
«Ne suono tanti, ma male, quindi vorrei approfondirli tutti: la maggior parte del mio tempo la impiego studiando strumenti vari. Alcuni vorrei portarli ai concerti, ma spesso è logisticamente difficile, allora magari li registro come basi per alcuni pezzi; mi vengono in mente in particolare la kora senegalese e il cuatro venezuelano. Di natura sono curioso, quindi impazzisco per tutti gli strumenti particolari che vedo. I soldi guadagnati i primi due anni da musicista, li ho spesi in strumenti: questo mi dà la possibilità di esprimermi al meglio. Senza alcuni strumenti non riuscirei a dare determinate sonorità: ad esempio, in Senegal, avevo una chitarra resofonica, molto usata nel blues del Mali, grazie a essa composi il ritornello di Salaam Aleikum.»
Quanto è stata importante l’esperienza in Senegal?
«Parecchio. È stata una delle cose più difficili da descrivere, però è stato bellissimo umanamente e artisticamente. Umanamente rimani toccato da tutto ciò che vedi: torni in Italia e ti infastidisce anche il minimo spreco, perché sai che un piccolo avanzo può cibare un bambino. Inoltre lì affrontano le difficoltà col sorriso e le superano. Musicalmente abbiamo ascoltato delle cose bellissime: i musicisti utilizzano apparecchiature obsolete, i testi e le armonie sono molto semplici, ma il loro modo di raccontare e i ritmi che adottano creano delle cose meravigliose. È una società con molti meno filtri.»
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