Teatro. Il “Processo a Viviani” di Corrado Ardone
NAPOLI – Per il Napoli Teatro Festival Italia, domenica 19 luglio nel Palazzo Reale di Napoli, nel Cortile delle Carrozze, sarà in scena lo spettacolo “Processo a Viviani”, interpretato da Mario Aterrano, nel ruolo di Raffaele Viviani, e da Massimo Peluso, in quello del Giudice.
Lo spettacolo è stato scritto e sarà diretto da Corrado Ardone, attore, regista e autore di grande esperienza, formatosi all’Accademia Teatro Capitol di Salerno, diretta da Ruggiero Cappuccio; all’Accademia Teatro Augusteo di Napoli, diretta da Guglielmo Guidi; attraverso il corso di perfezionamento teatrale diretto da Giorgio Albertazzi e il corso per attori solisti diretto sempre da Giorgio Albertazzi. E’ stato componente della rappresentativa italiana al festival mondiale del teatro in Casablanca (Marocco) nel 1994 e nella giuria giovanile alla 52ª biennale d’arte cinematografica di Venezia mel 1995. È attore, autore, regista, sceneggiatore. Interprete tra gli altri di Annibale Ruccello, Raffaele Viviani, Pier Paolo Pasolini. È stato diretto da Ruggero Cappuccio, Giorgio Barberio Corsetti, Giorgio Albertazzi. Come regista è autore per il cinema del corto “Se mi uccidi poi a chi picchi” segnalato al premio Flaiano. Con il suo primo film, intitolato “Sodoma, l’altra faccia di Gomorra” ha vinto il New York Award per la migliore sceneggiatura originale. È autore televisivo di esperienza decennale in format comici, recitando con il trio Ardone Peluso Massa.
Lo incontriamo alla prova generale dello spettacolo per un approfondimento delle tematiche trattate.
Cosa l’ha spinta a scrivere un testo su Viviani?
«L’idea è partita da Mario Aterrano, storico attore Vivianeo. Mi chiese di scrivergli un copione attinto dalla drammaturgia di Viviani. Inizialmente ero restio, perché solitamente pigro, e sapendo quel che costa di tempo e di impegno scrivere un copione, rifiutai gentilmente, perché “con un no ti spicci e con un si t’impicci”. Poi l’insistenza di Mario e l’affascinante personaggio di Viviani mi hanno convinto a cominciare i lavori. Non volevo però scrivere qualcosa ‘di servizio’. Quando scrivo mi piace approfondire qualcosa che m’incuriosisce e raccontare una storia o un aspetto che credo possa interessare. Così studiando la vita di Viviani, le sue vicissitudini, le sue difficoltà, ho trovato la sua esistenza affascinante tanto quanto i suoi testi.»
C’è un periodo in particolare che l’ha colpita?
«Sì, il decennio che va dal 1937 al 1947, quando il suo successo è scemato non per l’esaurirsi della sua vena poetica, ma per l’opposizione che ha ricevuto dal regime fascista prima, ma anche da un certo pubblico poi, che ha determinato, a mio avviso, un vero boicottaggio sistematico alla messa in scena dei suoi capolavori. Eppure Viviani è stato tra gli anticipatori del neorealismo, ma spesso la parola “genio” va a braccetto con la parola “incompreso”.
L’argomento ‘influenze’ romane è delicato, e ancora attuale?
«Oggi il discorso delle influenze è molto più ampio e va ben oltre Roma. Le influenze e le censure non sono affidate a organi statali che seguono linee politiche, ma a sistemi molto più globalizzati. Viviamo continuamente attaccati a un oggetto, lo smart phone, che svela sempre dove siamo e volendo cosa stiamo facendo e dicendo. Il web ha prodotto dei social dove spontaneamente abbiamo riversato tutta la nostra vita privata, i nostri legami, i nostri gusti, le nostre preferenze, le nostre idee. Queste informazioni vengono cedute a società e sistemi per stabilire il prossimo prodotto da acquistare o per direzionare l’opinione pubblica, quindi i nostri pensieri di massa. Pertanto, piuttosto che rispondere a questa domanda, mi viene da farne una: siamo veramente liberi?»
La situazione del settore è complicata. Ha un pensiero per gli operatori dello spettacolo?
«Fa male quando il settore spettacolo è trattato come qualcosa di superfluo e non necessario. Dimentichiamo che si va in palestra per allenare il corpo, ma bisognerebbe andare a teatro per allenare la mente. L’epoca che viviamo spesso c’insegna a essere cinici, a vivere per se stessi come animali in una giungla. Il teatro invece insegna qualcosa che nessuno è disposto a cedere facilmente: i sentimenti. Credo fermamente che il teatro bisognerebbe insegnarlo nelle scuole, perché didatticamente infonde il valore dello stare insieme, di mettersi in discussione, forma la personalità. Io stesso ho cominciato in questo modo perché ero un bambino timido. Spesso si associa lo spettacolo con qualcosa di ridanciano, “la gente vuole ridere” si sente spesso dire, ma è un frainteso. Perché la risata fine a se stessa è da ebeti e per questo basterebbe vedere i milioni di video sul web fatti da eserciti di idioti. Se abbiamo rispetto degli altri, dovremmo pensare che la gente non vuole solo ridere, la gente vuole emozionarsi. Se cambiasse queste mentalità non solo avremmo un trattamento di settore migliore, ma avremmo una realtà migliore da vivere per tutti.»