Autismo. Il bambino e la “Globalità dei Linguaggi”
NAPOLI – In occasione della Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo, celebrata lunedì 2 aprile, abbiamo incontrato Giulia e Pasquale Biancardi, due fratelli ed educatori che negli anni ’90 hanno portato in Campania l’approccio all’autismo e ai disturbi della comunicazione attraverso la GdL – Globalità dei Linguaggi. Attualmente svolgono le loro attività di riabilitazione a Napoli, al centro MaMu di Piscinola, luogo in cui si svolgono attività culturali, artistiche, formative, socio-educative, terapeutiche e riabilitative. Questa è la loro intervista.
Giulia Biancardi, come vi siete avvicinati al mondo della comunicazione?
«Abbiamo studiato entrambi al DAMS di Bologna e lì abbiamo scoperto il metodo, elaborato da Stefania Guerra Lisi (Artista, autrice e docente di Discipline della comunicazione all’Università di Roma – ndr) della Globalità dei Linguaggi, una disciplina dell’espressione che facilita i rapporti dell’essere umano relativi alla comunicazione, attraverso ogni tipologia di linguaggio. Questo ci ha portati a scegliere di dedicare la nostra vita alle persone con difficoltà.»
Come funziona la riabilitazione che si basa sulla “Globalità dei Linguaggi”?
«La felicità, la serenità: riconosce all’altro il diritto di essere se stesso. C’è etica, alla base, rispetto della persona con cui ti interfacci e dei suoi tempi. Per noi è fondamentale il Progetto Persona: non andiamo a prenderci cura degli altri pensando di avere già la soluzione, è la persona stessa che ci dice di cosa ha bisogno. Inizialmente siamo in ascolto, poi attraverso la decodifica dei linguaggi non verbali tentiamo di scavare in profondità, capire cosa si nasconde dietro i gesti, i colori, i suoni, il silenzio. Anche il silenzio è un grande momento di comunicazione; la Guerra Lisi dice sempre: “Se un bambino sta in silenzio, ha le sue buone ragioni.”.
Un altro dei nostri obiettivi è dare senso ai comportamenti insensati: spesso i bambini, sin da piccoli, hanno delle stereotipie (Ripetizione di una sequenza invariata e costante di uno o più comportamenti – ndr), ci sono cure che tendono a eliminare il comportamento-problema, noi invece, a meno che non sia violento su di sé e verso gli altri, lo valorizziamo, cerchiamo di entrare in esso, magari lo facciamo anche noi e diciamo, ad esempio, di vedere farfalle colorate che volano. Ovviamente anche noi puntiamo al miglioramento della persona, ma non reprimendo gli atteggiamenti problematici, bensì attraverso l’aiuto delle arti e l’interazione con gli altri: sosteniamo che quest’ultima sia centrale per l’individuo e la sua integrazione nel mondo, infatti tentiamo, sin da subito, di abbandonare la terapia individuale a favore dei gruppi di lavoro.»
Quanto questo lavoro influenza la vostra vita personale?
«Noi diciamo sempre: “Possedere, ma non essere posseduti”. Possedere, cioè farsi carico di quella che è la difficoltà che ci troviamo davanti, ma non esserne posseduti. Se sappiamo che una persona sta soffrendo molto, dobbiamo entrare nella sua sofferenza, anche perché per empatia ci risulta un processo naturale, magari ci portiamo a casa questa sofferenza, ma con la consapevolezza che se vogliamo essere d’aiuto a questa persona ci dobbiamo difendere dal dolore che ci procura quella condizione. Va bene pensarci, ma in maniera costruttiva.
La GdL ti fa rendere conto che questo non è solo un lavoro, ma un modo di essere. Bisogna conoscere e mettere in pratica ciò che si è appreso, ma è soprattutto condivisione di bellezze, difficoltà, vuol dire essere in un certo modo. Devi esserlo nella tu vita, non a momenti.»
Aspetti negativi?
Giulia: «Lo sconforto, ma non me lo provocano mai i destinatari del nostro lavoro, bensì il contesto. A esempio, spesso si lavora con insegnanti che, non conoscendo queste problematiche, iniziano a intervenire sui comportamenti dei ragazzi e vanificano gran parte del nostro lavoro.»
Pasquale: «Ci sono momenti di frustrazione in cui vorresti fare qualcosa, ma non ci riesci. Sai che, nonostante vorresti fare di più, devi aspettare i tempi del bambino. Talvolta c’è una comunicazione da parte sua che non riesci a decifrare sul momento, ma poi una scintilla: il bambino ti permette di capire qualcosa. In quel momento è come se dicesse: “Io ti do qualcosa, solo se posso fidarmi di te. Tu sii pronto ad ascoltare”. La frustrazione che ogni tanto si può provare è dunque colmata dall’amore verso questo lavoro e i bambini, con cui si ha un rapporto in continua evoluzione, che ti porta a mettere in discussione tutto ciò che hai imparato professionalmente fino a quel momento.»
Un’esperienza che ricordate?
Giulia: «Un ragazzo autistico, che seguivo, perse il padre. Un giorno mi chiese se il padre fosse diventato un angelo. Mi disse poi che io sarei diventata un angelo bellissimo, ma la domanda che mi colpì fu: “Io, quando morirò, diventerò un angelo disabile?”. Mi sconvolse, perché fu una riflessione enorme, considerando che veniva da una persona con difficoltà. Io sul momento non seppi come rispondergli, ma quando trovai una risposta gli dissi: “Spero che tuo padre sia un angelo, non so se io lo sarò, ma tu già lo sei qui.”».
Pasquale: «Ero agli inizi della mia prima esperienza. Con Giulia stavamo svolgendo un laboratorio in una scuola di Afragola e c’era questo bambino che aveva maggiori difficoltà a inserirsi nella classe, a causa di vari problemi, accentuati dall’impossibilità di camminare. Quindi, ingenuamente, pensando che una carezza e un abbraccio sarebbero bastati, mi proposi per occuparmene personalmente. Lui aveva dieci anni, ma era molto piccolo, quindi durante tutte le attività era sempre in braccio a me e ricordo come fosse ieri la sua mano che toccava prima il suo viso e poi il mio; accarezzandomi dopo aver toccato il suo viso, io potevo percepire l’odore della sua saliva perché non riusciva a trattenerla, e questa era come una prova. Mi stava mostrando la strada che avevo scelto di percorrere, e io in quel momento ho capito fino in fondo che volevo continuare a occuparmi di questo».
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