Lavoro. Kyare tra Egitto e Italia, in attesa di una cittadinanza a ostacoli
NAPOLI – Genitori crescono figli come cittadini del mondo, ma in un’Italia in difficoltà, che non è in grado di eliminare ostacoli burocratici sui percorsi che portano dalla formazione al lavoro. E’ il caso di Kyare Khaled, una giovane campana di origini egiziane, da poco laureata in Mediazione linguistica, che racconta ai nostri microfoni le difficoltà riscontrate nel cercare lavoro in Italia, nonostante il Governo del ‘cambiamento’. La incontriamo nel centro storico di Napoli, poco lontano dal negozio dove lavora, e dove, così dice, “almeno qui non mi chiedono come requisito la cittadinanza italiana”.
Quando ti chiedono da dove vieni, tu cosa rispondi?
«Quando me lo chiedono rispondo dicendo che sono di origine egiziana, e che sono nata in Italia. Credo un paio di volte di aver risposto che sono italo egiziana, ma subito dopo ho smesso di esprimermi in quel modo. Non avendo infatti a oggi la cittadinanza italiana ed essendo di fatto etichettata come straniera, mi sembra scorretto definirmi italiana. Interpreto tutto questo come un rifiuto dello Stato, un rifiuto che comporta il non considerarmi una cittadina italiana nonostante io sia nata in Italia.»
Che ruolo ha l’Egitto nella tua vita?
«Sono nata in Italia, ma all’età di sette anni i miei genitori ci hanno portato, me e le mie sorelle, in Egitto. Siamo cresciute al Cairo, insieme ai nonni paterni. Lì ho vissuto e studiato fino all’età di 19 anni. È stata una città fondamentale, ed è normale che io mi senta egiziana. È grazie a ciò che mi hanno trasmesso i miei nonni, grazie a quei valori che mi porto dentro, che oggi sono quello che sono. Quando poco più che bimba dovetti lasciare l’Italia, fu per me una tragedia: avevo appena iniziato le elementari e non volevo andar via, ma i miei genitori volevano divorziare e bisognava tornare in Egitto. Crescendo mi sono adattata a quello che per me era un nuovo paese, ma l’amore per l’Italia rimaneva negli anni invariato. Passava il tempo e io custodivo i ricordi di quello che era stato il Paese della mia infanzia. Ricordo il Natale, stare tutti insieme. Anche se noi siamo musulmani e non crediamo nelle feste cattoliche, vivevamo quelle festività come un momento di pura gioia. L’essermi portata dentro tutta questa Italia per dieci anni ha fatto sì che, appena ho potuto, appena diciannovenne, son tornata.»
Sei tornata in Italia solo per questo?
«Le ragioni furono varie, tra cui un sistema d’istruzione egiziano che non mi permetteva di studiare ciò che desideravo all’università: il voto con cui ero uscita alla maturità non era abbastanza alto da garantirmi l’accesso ad alcune facoltà. Non fu facile tornare da ragazza in un luogo che ero stata costretta ad abbandonare da bambina, la società in cui avevo vissuto per dieci anni era nettamente diversa da quella italiana. Ho cercato di adeguarmi a quello che stavo riscoprendo. Ho portato il velo per tanti anni. Dal 2009, anno in cui son tornata, fino al 2017, non lo tolsi mai definitivamente. Ma qualcosa cambiò. Avevo infatti iniziato danza del ventre e sul palco scenico, a ogni spettacolo, stare con il velo mi metteva in difficoltà. È vero, togliersi il velo era solo un gesto, ma un gesto che mi provocava terribili conflitti interiori. Decisi quindi di toglierlo e oggi posso dire d’aver trovato un equilibrio. Sono molto influenzata dalla cultura arabo-islamica, e ovviamente togliere il velo non ha cambiato quello che porto dentro. Ma era qualcosa che volevo fare, e l’Italia in questo mi ha aiutata.»
Cosa volevi studiare?
«Quando sono tornata a 19 anni il mio livello di italiano era un A1, non certo alto. Io amavo disegnare, avrei voluto fare ingegneria, ma essendoci il test di ingresso, tutto in italiano, sapevo che non ce l’avrei fatta. La cosa più automatica è stata quindi per me scegliere la Facoltà di Lingue, a Napoli. Il corso era in mediazione linguistica e culturale.»
Quando ti sei resa conto che serviva la cittadinanza italiana?
«Ho iniziato a capirlo mentre frequentavo l’università. Sapevo dentro di me che non essere riconosciuta come cittadina italiana mi avrebbe limitata fortemente. Ma ho continuato pensando che avrei trovato una soluzione. Nel frattempo ho sempre lavorato, trovando luoghi di lavoro in cui non era richiesta la cittadinanza. Ovviamente non ho accesso ai concorsi pubblici. E anche se volessi fare l’insegnante, ora come ora non potrei. In Italia, per chi si trova nella mia stessa condizione, devi trovare il lavoro giusto in base ai documenti che hai, non si tratta più di fare il lavoro che vuoi fare.»
Per diventare Mediatore culturale in Italia bisogna essere cittadini italiani?
«Secondo il Ministero della Giustizia, che lo scorso anno pubblicò un bando per 15 mediatori culturali, il requisito della cittadinanza italiana era fondamentale. Il Tribunale di Milano ha poi ribaltato la situazione dichiarando illegittima e discriminatoria la parte del bando che escludeva i cittadini non italiani dal concorso. Personalmente credo che per fare il mediatore culturale non sia necessario essere riconosciuto come cittadino italiano. Il mediatore è qualcuno che abbraccia e conosce profondamente due culture. Se sei italiano e sai parlare un’altra lingua non significa automaticamente che sei un mediatore culturale. Essere mediatore culturale significa essere un ponte fra due luoghi, e per esserlo non serve essere riconosciuti come italiani.»
Come ti ha cresciuta Napoli?
«Napoli mi ha cresciuta come una cittadina del mondo, una cittadina in parte europea e quindi non necessariamente italiana. È a Napoli che ho imparato a convivere con persone diverse da me. Se ho sempre avuto un profondo rispetto per l’altro, se posso oggi definirmi di mentalità ‘aperta’ è anche grazie a questa città.»
Cosa è cambiato per il raggiungimento della cittadinanza italiana con l’attuale Governo?
«È tutto molto più complicato. Già prima dovevi aspettare due anni per ottenere la cittadinanza, ma adesso devi aspettare ancora di più. Non capisco quale sia la ragione, se non il far soffrire inutilmente delle persone. Cosa puoi fare in quattro anni? Non ci vogliono realmente quattro anni per capire se la persona ha i documenti in regola, a maggior ragione se la persona in questione è nata in Italia. E in più da 200 euro ora ne paghi 250. Come se i documenti da mettere insieme non fossero già abbastanza costosi. È tutto molto degradante. Io dovrò aspettare altri quattro anni prima di accedere a un concorso pubblico. Se potessi farlo denuncerei tutto questo, ma chi denuncio? Lo Stato? Qual è il senso di tutto questo?»
Credi che l’Italia sia il paese del tuo futuro?
«Per come stanno le cose ti direi che un’altra nazione forse è la mia soluzione. Io l’Italia non la voglio abbandonare. Non sono una persona che si demoralizza. Forse troverò un lavoro che rispecchierà tutti gli sforzi, tutti gli anni di studio che ho fatto qua in Italia. Ma è tutto molto incerto.»
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