Libri. Con Mauro Giancaspro “Da Giùnapoli al Vomero”
NAPOLI – Lunedì 22 maggio alle ore 18:00 circa, Mauro Giancaspro, scrittore di libri di successo come “Il vecchio che parlava alle piante”, “E l’ottavo giorno creò il libro” e “Leggere nuoce gravemente alla salute”, ha presentato il suo ultimo romanzo “Da Giùnapoli al Vomero”, edito da Alessandro Polidoro, alla libreria “Io ci sto”.
Insieme all’autore, anche la giornalista Federica Flocco, che ha coordinato l’incontro; gli scrittori Michele Serio e Dino Falconio; e Paolo de Luca, presidente della 5a municipalità di Napoli. La lettura di alcune pagine del libro è stata affidata all’Avv. Gian Luca Matarazzi, componente della compagnia teatrale “Studio 19”.
Mauro Giancaspro, nato Giùnapoli nel 1949, in questo libro rivive la storia di un quartiere che fa parte della storia di Napoli. Apre la scatola dei ricordi ripercorrendo momenti di vita di anni difficili ed entusiasmanti, difficoltà e speranze del dopoguerra, rivivendo suggestioni, sogni e scoperte che hanno accompagnato la sua infanzia da Giùnapoli al Vomero.
Durante la presentazione, la Fondazione “Avella città d’arte”, che si occupa di valorizzare e far conoscere il patrimonio artistico e culturale della città di Avella, Comune in provincia di Avellino, ha consegnato per mano del presidente della Fondazione, Avv. Antonio Larizza, un premio a Mauro Giancaspro per la capacità dello scrittore di esaltare le proprie radici e di valorizzare i luoghi della propria città.
Alla presentazione del libro abbiamo rivolto le nostre domande allo scrittore Mauro Giancaspro.
Perché raccontare la sua infanzia vissuta al Vomero?
«Noi abbiamo sempre qualcosa dell’infanzia che non è andata come desideravamo, quindi parlare dell’infanzia significa anche accettare tutti i problemi e le difficoltà che sorgono quando si è bambini».
Come ha vissuto la Napoli post bellica?
«Noi ragazzi in realtà non ci rendevamo conto che quella era la Napoli post bellica. Sapevamo che c’erano delle privazioni, delle ristrettezze e delle difficoltà economiche. Sapevamo che non tutti avevano il frigorifero in casa, che la tipologia di cucina più comune era molto simile alla cucina del tipografo Lo Turco, che si vede nel film di Totò “La banda degli onesti”: c’era questo mobile grande con il lavatoio, il mobile lungo dove mettere le scope, un tavolo con 4 sedie, i due rubinetti del lavandino, collegati a due cannelle di gomma. Poiché in casa non c’era il frigorifero, spesso nel lavatoio c’era la pentola con all’interno la bottiglia di vino e la frutta, riempita con acqua corrente per rinfrescare cibi e bevande durante l’estate. Il frigorifero arrivò più tardi nelle case degli italiani. Quando prendemmo la casa la Vomero non c’era quasi niente in casa, ma era così nella maggior parte delle case degli altri condomini, erano vuote, la casa si arredava poco alla volta. Poi con gli anni ’60 c’è stato il boom economico e arrivò la Fiat 600, la televisione in casa, il frigorifero, la lavatrice. Erano tutte novità».
L’automobile era uno status symbol negli anni ’60. La sua famiglia ne possedeva una?
«Spesso noi bambini del palazzo ci riunivamo nel cortile, dove giudicavamo lo status economico delle famiglie dall’auto che possedevano. La mia famiglia era giudicata male perché non ne possedeva una. Quando chiesi spiegazioni a mio padre mi disse: “Io non sono uno di quelli che per avere la 600 fa cenare la famiglia con 100 grammi di Soresina tagliata a fettine”. La nostra prima macchina è stata una 600 color sabbia acquistata alla fine degli anni ’60».
Napoli, in particolare il Vomero, quando lei era adolescente era totalmente diverso rispetto a oggi. Quali sono le differenze più importanti?
«Da bambino andai ad abitare al Vomero vecchio e questo fu motivo di dissidi fra mio padre e mia madre, perché a mia madre non piaceva il posto a causa di una salita ripidissima, mio padre invece asseriva che era una strada storica, che era addirittura sulla Mappa del Duca di Noja (Una carta topografica riferita alla città di Napoli e ai suoi contorni, risalente al 1775, che costituisce un’importante fonte iconografica per lo studio topografico e urbanistico del territorio tra il XVII e il XIX secolo – ndr), cosa per la quale mia madre non aveva nessun interesse. Poi abbiamo visto la fine del Vomero, cioè una speculazione edilizia ‘legittima’, perché a Napoli nel 1956 fu rubato il piano regolatore. Il piano regolatore fu ritrovato dopo qualche tempo con tutte le zone verdi ricolorate in giallo, cioè le zone destinate all’agricoltura erano diventate zone edificatorie. Così nacque dal nulla via Cilea, che secondo me è la strada più brutta di Napoli».
Crede che il Vomero abbia perso ciò che lo caratterizzava?
«Una volta le città odoravano. C’è, ad esempio, un libro che mi piace moltissimo: “Ascolto il tuo cuore città” di Alberto Savinio, dedicato a Milano. Savinio insegna a riconoscere la città anche dai suoi odori, che può anche essere un cattivo odore. Ora ad esempio il Vomero è come tutte le altre città, poiché ha lo stesso odore: patatine fritte, kebab e hot dog. Quindi, perdendo i suoi odori caratteristici, il Vomero ha perso la sua identità».
È quindi la globalizzazione la causa della perdita di identità?
«Globalizzazione è una parola impegnativa, io penso che sia la mancanza di fantasia che rende tutte le nostre città uguali».
La stesura del libro “Da Giùnapoli al Vomero” nasce da un flusso di pensieri?
«È innanzitutto un flusso di pensieri. Poi viene riletto 50mila volte, così che un libro, che in origine era di 180 pagine, diventa di 120 pagine. Ha ragione Erri De Luca quando dice che lo scrittore è ospite del lettore, quindi bisogna condensare il tutto per lasciare nel lettore quella voglia di saperne di più, altrimenti la lettura del libro viene abbandonata».
Cosa intende trasmettere ai suoi lettori con questo libro?
«Dipende. Quando si scrive, ogni scrittore lancia un messaggio, il lettore poi lo interpreta un po’ come vuole».
By Ilaria D’Alessandro