Libri. Napoli e innovazione. Intervista a Stefano De Falco
NAPOLI – E’ stato presentato in data 2 dicembre, al Gran Caffè Gambrinus di Napoli, il libro “Vesuvius Valley” pubblicato da Cultura Nova. L’autore Stefano De Falco analizza nel suo volume le potenzialità di innovazione e miglioramento del capoluogo partenopeo.
Il titolo del libro gioca sul parallelismo con la Silicon Valley californiana, culla mondiale dello sviluppo tecnologico, e la mela della Apple di Cupertino cede il posto come simbolo di innovazione alla mela annurca dei mercati del Borgo di Sant’Antonio Abate: la copertina del libro, curata da Lello Esposito, sintetizza perfettamente questa immagine, ritraendo un’illustrazione del Vesuvio che erutta proprio una mela annurca.
Il libro dimostra come Napoli sia potenzialmente la città più innovativa al mondo e lo fa partendo dal teoreoma di Richard Florida: secondo lo studioso americano la creatività, la vivacità e il multiculturalismo si pongono alla base dell’innovazione e dello sviluppo locale. La città di Napoli, secondo questa prospettiva, sarebbe un terreno fertile per la crescita innovativa, forse più di qualsiasi altro posto al mondo.
La presentazione conviviale è stata moderata da Amedeo Colella, proprietario della casa editrice Cultura Nova. E’ intervenuto Fabrizio Mangoni, architetto e docente di Urbanistica all’Università Federico II, che ha parlato di Napoli come città fortemente ideativa, ma priva di forze capaci di sostenerne la creatività. Sono seguiti gli interventi di Dino Falconio, direttore della rivista Paradox; di Patrizia Lopez, cantante statunitense, partenopea d’adozione; di Armando Carravetta, professore di Idraulica alla Federico II e di Leopoldo Angrisani, professore ordinario di Misure e direttore del “Centro Cesma” nell’area di Napoli est.
Abbiamo intervistato l’autore Stefano De Falco, docente di Geografia della innovazione urbana all’Università di Napoli Federico II e direttore del “CeRITT”, Centro di Ricerca per l’Innovazione ed il Trasferimento Tecnologico.
Qualcosa a Napoli fa pensare a un connubio perfetto tra tradizione e innovazione?
«La quotidianità. E’ il quotidiano che mi fa pensare a questo connubio, un intreccio che si ripete per 365 giorni e che spesso i media raccontano in modo separato; da un lato si parla dell’élite della ricerca, della Napoli dell’innovazione, e dall’altro della Napoli dell’artigianato, della tradizione e anche delle brutte storie che la caratterizzano. Napoli è invece una sola e può crescere solo se vista e raccontata nel suo insieme.»
Napoli è consapevole della sua capacità innovativa?
«Io penso che non lo sia. Lo è più nella mente degli investitori stranieri, che se purtroppo da un lato non incontrano delle condizioni favorevoli, dall’altro trovano tanta energia potenziale, che quindi potrebbe essere sviluppata. E’ proprio questo uno degli aspetti su cui bisogna insistere. Il libro di oggi è nel suo piccolo un tentativo di rendere edotti della forza su cui sono seduti tutti i napoletani, per valorizzarla nell’interesse di ciascuno di loro.»
I giovani sono ricettivi al concetto di innovazione?
«I giovani nascono già innovativi, non studiano l’innovazione. Hanno già una propensione all’innovazione, devono solo trovare condizioni fertili affinché ci sia un passaggio dall’idea alla forma. In questo tutti gli attori locali sono chiamati a intervenire, quindi le istituzioni, le imprese, le università, i centri di ricerca, fino ad arrivare al dettaglio del singolo commerciante che può rivestire un ruolo importante nella diffusione dell’innovazione, nell’impatto con la popolazione nel quotidiano.»
Cosa ha ispirato il suo libro?
«Ho tratto l’ispirazione da un’esperienza specifica, che è quella che sto seguendo per conto della Federico II: la riqualificazione dell’area di Napoli est, in cui si sta passando da fabbriche dismesse a fabbriche della conoscenza. Il cambiamento è tangibile, basta andare sul posto per accorgersene, e finalmente anche nelle forze politiche c’è l’intenzione di sovvenzionare con una serie di fondi tutta questa rigenerazione. Anche il recupero del lungomare rientra nel progetto, perché tutto converge in un’ottica di tessuto urbano innovativo, quindi non di innovazione ascritta al solo interesse della ricerca e dell’università. Mi ha ispirato inoltre una cosa che credo sia stata un errore, forse storico, ovvero la creazione di una frattura tra “signori e popolo”, come scrive Clement nel suo libro, perché le masse fanno parte di questa popolazione, vanno coinvolte. Se addirittura tre secoli prima di Cristo c’era la Lex Hortensia che teneva in conto i nullatenenti, ora duemila e oltre anni dopo le masse devono essere considerate come attori del sistema di sviluppo locale e non come parte passiva che si riduce a semplice icona folcloristica.»
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