Libri. Recensione di (Ph)enomena
NAPOLI – In filosofia “fenomeno” è ciò che appare, che è conoscibile attraverso i sensi e che può non corrispondere alla realtà oggettiva. È ciò che accade leggendo il libro (Ph)enomena di Giulia Sangiuliano, edito da Eretica Edizioni, nel quale ci si ritrova d’improvviso immersi in un racconto che si discosta dall’ordinaria percezione di spazio e tempo e la cui ambientazione onirica fa da sfondo alle vicende dei personaggi, spogli dalle loro solitudini emotive.
Due i principali protagonisti della storia: la giovane Vittoria Coe e il primario di Neurologia in un ospedale della periferia di Firenze, il dottor Clerk, le cui vicende si alternano e si intrecciano al ritmo di uno stile poetico e dall’impronta introspettiva. Entrambi i personaggi infatti presentano un dialogo differente e le interazioni appaiono come sospese, eteree, rese morbide e dure a seconda delle situazioni e dello stato d’animo del momento.
Quello della contraddizione è un elemento importante nell’opera della scrittrice, che ricorre attraverso l’utilizzo di concetti e termini ossimorici, inducendo il lettore a profonde riflessioni. Quante volte ci siamo posti domande sul senso della vita e quante volte abbiamo cercato risposte razionali? Ebbene, l’idea di voler ricercare un senso totalmente e assolutamente logico alle proprie azioni conduce alla pazzia, perché in quanto esseri senzienti, dotati di anima e corpo, è impossibile non lasciarsi travolgere dagli eventi più duri e difficili che la vita ci costringe ad affrontare. La nostra corporeità diviene in questo modo il mezzo attraverso il quale ci affacciamo al mondo e col quale facciamo esperienza delle passioni e dei drammi.
Ciò è quanto accade per Vittoria, una giovanissima ragazza che ha subìto forti traumi nel corso della sua adolescenza e non ha avuto la fortuna di poter vivere in un ambiente familiare caldo e accogliente, a causa dei litigi tra il padre e la madre e le difficili condizioni di salute mentale della sorella. Ed è a quel punto, quando il corpo è fin troppo sazio delle sensazioni che ha ingerito, che ricorre il tema della morte che salva, che isola dal mondo circostante per entrare in un altro che affascina, perché nuovo e diverso.
“Il sonno della morte”, per dirla in termini Shakespiriani, che la scrittrice riprende nel suo testo con il riferimento all’Amleto, proponendo un’analogia di pensiero tra la condizione d’esistenza di Vittoria e quella del personaggio della tragedia inglese, espresso attraverso l’interrogativo esistenziale del vivere o del morire.
La scrittrice dunque si addentra e scava a fondo fra i meandri di una mente sensibile, che sente su di sé il peso di tutto ciò che accade, rendendo la ragazza della storia un individuo dalla personalità proteiforme e la quale si presenta come il risultato dato dalla “somma di altro, da situazioni che spesso non hanno nulla a che fare con noi, ma che ci plasmano inevitabilmente anche se sono esattamente il contrario di ciò che desideriamo”.
“In quanto corpi, esistiamo sempre per qualcosa che va oltre noi stessi, per qualcosa che è altro da noi.”, è con questa citazione, della filosofa statunitense Judith Butler in “Fare e disfare il genere”, che l’opera della Sangiuliano pare trovare un punto di contatto, perchè ciò che fa l’autrice è dipingere ogni personaggio della storia usando tonalità cromatiche senza dubbio delicate.
Il confronto con l’altro appare inevitabile al fine di conoscere e riconoscere se stessi, ma a un certo punto ci si trova dinanzi alla pericolosità della dinamicità dell’essere e delle relative forme illusorie del pensiero che ingannano la mente dell’uomo. È quanto accade al Dottor Clerk, il quale si lascia persuadere dal fascino criptico del caso clinico della ragazza, che pare irrisolvibile agli occhi della scienza, e allo stesso tempo lo trascina in un vortice di situazioni quasi paradossali e assurde. Le allucinazioni si insinuano nella mente del dottore come tarme voraci di legno, creando buchi dall’interno dei quali fuoriescono pensieri celati, personalità nascoste, parole mai dette. I disturbi mentali e la malattia dei singoli individui si presentano sulla scena come un urlo straziante, inevitabile e liberatorio, un urlo la cui potenza riecheggia così forte all’interno del corpo da scombussolare e creare disordine nell’organismo.
Tra gli altri temi affrontati c’è anche quello dell’omosessualità e dell’anoressia, tematiche delicate che vanno discusse con una certa dose di sensibilità e che la Sangiuliano pare riuscirci con maestria.
La copertina del libro è suggestiva e mostra l’immagine di un volto di una bambina diafana rivolto verso chi guarda, lanciando allo spettatore uno sguardo attento, vivace seppur triste, e il dettaglio dell’occhio dalle tonalità azzurre che guarda dritto a sé con fare deciso, incuriosisce e allo stesso tempo intimorisce. Atteggiamento che si contrappone a quello dell’uomo che appare in miniatura sopra il suo volto e che si dirige non si sa dove con andatura rassegnata e curvo su se stesso.
Ancora una volta la contraddizione espressa ora in chiave grafica: da una parte un volto innocente che scruta ciò che osserva e dall’altra un’immagine della rinuncia, del rammarico di ciò che è stato e che non potrà più esserci.
In (Ph)enomena dunque il lettore ha la possibilità di potersi specchiare dentro e veder riflessa la propria immagine come attraverso un caleidoscopio. Pezzi di sè, appartentemente sparsi, si intrecciano tra loro creando riflessioni multiple dalle forme svariate e colorate, riproducendo però un unico soggetto: noi stessi.
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