Napoli. Premio Pimentel Fonseca all’attivista Djimi Elghalia
NAPOLI – Il giorno 20 agosto alle ore 20:00, presso la Basilica di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli, si è tenuta la II edizione del Premio Pimentel Fonseca, prologo del Festival Internazionale di Giornalismo Civile “Imbavagliati”, che si terrà dal 18 al 24 settembre al Museo PAN di Napoli, ideato e diretto da Désirée Klain e prodotto dall’Associazione Culturale “Periferie del Mondo – Periferia Immaginaria”.
L’iniziativa è promossa dall’Assessorato alla Cultura e al turismo del Comune di Napoli, che in sinergia con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici anche quest’anno ha proposto la doverosa cerimonia di commemorazione ai martiri del 1799 e in modo particolare a Eleonora Pimentel Fonseca, patriota e giacobina napoletana, fondatrice del giornale “Monitore Napoletano”, impiccata in Piazza del Mercato il 20 agosto del 1799 insieme ad altri martiri della Rivoluzione.
Il premio internazionale di giornalismo ha lo scopo di premiare il coraggio e l’impegno delle donne che svolgono questa professione. Quest’anno è stato consegnato a Djimi Elghalia, attivista per i diritti del popolo Saharawi, che con la sua immagine, la sua forza, la sua volontà rappresenta un indiscutibile simbolo di resistenza pacifica.
Nata in Marocco, ad Agadir nel 1961, Djimi è cresciuta con la nonna, rapita nel 1984 e mai ritrovata. Anche Djimi è ‘scomparsa’ all’improvviso: 3 anni e 6 mesi di prigionia, durante i quali è stata sottoposta a crudeli forme di tortura. Nonostante ciò continua a battersi per l’autodeterminazione di un popolo che da oltre 30 anni difende la propria indipendenza attraverso un’azione mirata di riconciliazione: la questione del Sahara Occidentale, ex colonia spagnola, affonda le sue radici già negli anni ’50, quando in seguito alla scoperta dei giacimenti di fosfati di Bou Craa, città situata nel nord ovest del Sahara Occidentale, il nazionalismo saharawi venne soffocato da un regime coloniale caratterizzato da un crescente sfruttamento di manodopera locale a basso costo. L’ONU nel 1960 ha riconosciuto il diritto dei popoli all’autodeterminazione, cercando di sanare il suo stato di indeterminatezza politica. Diritto che però viene costantemente ostacolato dal Marocco, il quale attua ancora oggi un processo di colonizzazione barbarica e crudele.
In occasione dell’evento, abbiamo intervistato Djimi Elghalia.
Il popolo Saharawi considera come propria terra il Sahara Occidentale. In seguito all’occupazione del Marocco, i fermenti indipendentisti hanno portato nel 1973 alla nascita del Fronte Polisario e all’inizio della lotta armata. Gran parte dei Saharawi si rifugiarono nel deserto algerino, proclamando la Repubblica Araba saharawi democratica (Rasd). Quali sono oggi le condizioni in cui si trova il Sahara Occidentale?
«In realà la situazione del Sahara Occidentale è stazionaria, nel senso che lo status quo permane perché il Marocco non ottempera agli obblighi previsti dall’accordo internazionale per il referendum. Per quanto riguarda la situazione in loco delle popolazioni autoctone saharawi, queste subiscono nei territori occupati la repressione e la discriminazione da parte del governo marocchino, che reprime qualunque istanza di diritti civili, in primis il diritto all’autodeterminazione.»
Quali vantaggi trae il Marocco dal territorio?
«A livello sociale è bene precisare che il popolo saharawi rappresenta solo il 20% della popolazione, perché la maggior parte è costituita da marocchini e la grande maggioranza di questi marocchini sono di ceti bassi, i quali sono giunti nelle zone dall’entroterra per migliorare la propria condizione di vita. Dal punto di vista delle risorse e dei vantaggi economici bisogna tener conto che il territorio sarahawi ha una linea costiera molto lunga, con attività ittiche molto sviluppate, e presenta una grande quantità di miniere di fosfato, le quali sono tra le più importanti del mondo.»
Prigioniera per 3 anni in un carcere del Marocco, dove trova la forza per non odiare?
«È importante fare una differenza tra prigioniera e scomparsa, perché io sono stata rapita e portata via. Lo stato giuridico del prigioniero è ben specifico: essi possono ricevere visite, accogliere familiari. Invece per noi non era così. Noi eravamo ai margini, eravamo ‘scomparsi’, non c’erano contatti con nessuno. Ci avevano messo lì a morire poco a poco. Ciò che mi ha dato il coraggio di andare avanti è stata la mia fede in Dio, ma anche la convinzione della legittimità della causa che pacificamente sostengo.»
Recentemente in Europa è nata la polemica contro il burqua e ‘burquini’, cosa ne pensa?
«L’abbigliamento è un diritto personale. Credo che ognuno dovrebbe essere libero di scegliere. Ognuno è libero di vestirsi o svestirsi. Noi del popolo Saharawi abbiamo la melhfa, un abito di cotone che copre tutto il corpo tranne il volto e le mani, e che però non è nato per motivi religiosi ma climatici. Però sostengo sempre che per motivi di sicurezza pubblica il volto debba andare sempre scoperto.»
Nel video il servizio sull’evento organizzato da Desiree Klain, che ha avuto l’obiettivo non solo di premiare il forte impegno di questa donna, il cui coraggio è sinonimo di forza e di audacia, ma anche quello di mostrare piena solidarietà nei confronti di un popolo che si batte per la libertà.
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