Teatro. Corrado Ardone porta in scena “Processo a Viviani”, con Mario Aterrano e Massimo Peluso
NAPOLI – Al teatro della canzone napoletana Trianon Viviani, a Napoli in Piazza Vincenzo Calenda 9, venerdì 11 e sabato 12 aprile ore 21 sarà in scena lo spettacolo “Processo a Viviani” scritto e diretto da Corrado Ardone, con interpreti Mario Aterrano, nel ruolo di Raffaele Viviani; e Massimo Peluso in quello del Giudice. E con Vincenzo Vecchione e Graziano Purgante. Musiche e arrangiamenti sono a cura del M° Michele Bonè.
Lo spettacolo è un processo immaginario a Raffaele Viviani, che mette a nudo la vita e il percorso artistico del drammaturgo, costretto a difendersi dalle accuse rivoltegli dal giudice: reo di raccontare le miserie, discreditando le politiche di governo. L’arringa dell’autore a difesa della sua innocenza, attraverso aneddoti di vita, confessioni e performance tratte dal suo repertorio, mette a nudo gli aspetti della sua eccentrica personalità.
Il dopoguerra segnò l’inizio del neorealismo, che vide in Viviani un precursore dei tempi, ma troppo tardi, l’autore ormai sopravviveva facendo l’attore di compagnia, e quando finalmente riuscì a tornare al ‘suo’ teatro, poco tempo dopo si ammalò e morì. Le voci del popolo sentenziarono: “È muort’e collera”.
Al riguardo, il regista Corrado Ardone commenta: “Verso la seconda metà degli anni ’30 lo strepitoso successo degli spettacoli della compagnia Viviani cominciava a scemare. Erano gli anni del regime rampante. Si è molto parlato dell’avversione del regime fascista e della lotta al dialetto, in realtà il teatro di Viviani, basato spesso sulla realistica rappresentazione della miseria, non era funzionale alla propaganda di regime. Ma fu soprattutto il pubblico, composto di nuovi ricchi, desideroso di grandeur e di rassicurazioni, a decretare l’ostracismo per un teatro che metteva scomodamente a nudo le realtà più drammatiche della convivenza umana. Con queste premesse, il nuovo pubblico borghese, infastidito dagli ‘stracci’, disertò le sale dove recitava. Lo accusavano di portare in giro le ‘vergogne d’Italia’. Viviani ormai non faceva più gli incassi di una volta e quindi gli impresari lo relegarono sempre più in teatri periferici e secondari. L’autore si trovò a dover lottare per non far scomparire il suo teatro, che fin dal 1937 il fascismo, e per esso Nicola De Pirro, a capo della direzione generale del teatro, aveva deciso di squalificare culturalmente, cominciando a escluderlo dalle piazze più importanti e dai teatri più popolari. In seguito il teatro dialettale venne escluso anche dagli aiuti statali.
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